Paolo Gentile Lanfranchi, morto centenario nel gennaio del 1983, è stato sicuramente il personaggio più singolare, più bizzarro, e straordinario, di tutta la grande dinastia dei Lanfranchi. Avrebbe potuto dire, senza cadere nel paradosso, di possedere cento vite, come i gatti. Non solo perché è giunto lucidissimo quasi al traguardo del secolo, ma perché nell’arco così vasto e intenso della sua esistenza è riuscito a mettere un po’ di tutto: da quando, nel 1915, è andato in guerra “volontario automobilista” (insieme al futurista Boccioni), fin quando, ancora nel 1982, discuteva d’arte con Beppe Novello, insuperabile “signore di buona famiglia”. Sul piano professionale era un lavoratore formidabile: uno di quelli capaci di stare diciotto o venti ore in fabbrica, specie da giovane quando, mortogli il padre all’improvviso, aveva dovuto rimboccarsi le maniche e prendersi sulle spalle la responsabilità della ditta, insieme a quella della famiglia, con sette fratelli da tirar grandi.
Eppure il lavoro non l’ha mai assorbito del tutto: perché una vena ironica, un inguaribile ottimismo, gli hanno sempre suggerito di tenersi un po’ di spazio libero, un po’ di tempo per i suoi svaghi e i suoi hobbies. Così, la passione per l’automobile o per la macchina fotografica o per la banda di Palazzolo (dove ha sempre suonato il clarinetto), e il gusto dei viaggi (e magari, anche quello per la rivista e le belle donne: le ballerine del Lido di Parigi!) gli servivano ottimamente per ricaricarsi, dopo le faticacce quotidiane a fianco dei suoi operai. Ma la sua nuova vita il “Pi-gi-elle”, come veniva chiamato anche dagli amici in base alla caratteristica sigla, doveva cominciarla nel 1958, quando l’incontro con pennelli e colori lo avrebbe trasformato, durante l’ultimo quarto di secolo, nel caratteristico, sensibile, onnipresente “pittore di Palazzolo”.
I primi rudimenti glieli aveva dati Giuseppe Belotti; ma era la vena istintiva dell’autodidatta di vaglia a suggerirgli di far rivivere con la tavolozza centinaia, anzi migliaia di visioni della sua Palazzolo, colta con un sentimento di realismo magico e poetico, o rivisitata con gli occhi della memoria: la Palazzolo di quand’era fanciullo, certi angoli, certi scorci, certe atmosfere di un tempo ormai lontano e irripetibile.
Si era dato alla pittura con lo stesso vigore e accanimento con cui aveva mandato avanti la sua ditta, orgoglioso – diceva sempre, con un disarmante sorriso – del suo motto “così bel bello ho abbottonato mezzo mondo”. E insieme ai quadri aveva anche trovato il tempo di scrivere episodi e ricordi del suo paese, tanto da riempire tre libri illustrati (uno intitolato Palazzolo sull’Oglio, gli altri due La vecchia Palazzolo, con prefazioni di Aldo Zagni e Renzo Pagani).
Tre volumi che restano a testimonianza del suo grande amore per il borgo natio, per la piccola patria di cui sapeva vita, virtù e difetti (e se qualcosa non gli andava a genio, prendeva la carta da lettera e non aveva peli sulla lingua con chiunque: fosse pure l’allora sindaco Francesco Ghidotti, o Monsignor Spada dell'”Eco di Bergamo”, o persino Montanelli, il direttore del “Giornale”).
Si era sposato nel 1918 con Letizia Marchetti; non aveva avuto figli (anche se l’adorata nipote Letizietta è cresciuta in casa sua!); ma delle maestranze della ditta aveva fatto una specie di grande famiglia, che dirigeva con piglio patriarcale. Conosceva tutti i dipendenti, li seguiva, li aiutava se necessario, magari li strapazzava con piglio un po’ burbero, quando uscivano dal seminato. Ma fino all’ultimo, anche se in teoria era in pensione da anni, la sua presenza l’avvertiva chiunque: e quando prendeva la parola, lasciava il segno!
La prova più bella e commovente della sua popolarità Paolo Gentile Lanfranchi l’ha avuta quando è mancato, la fredda mattina del 7 gennaio 1983. A dargli l’estremo saluto c’era tutta Palazzolo, perché, anche per merito suo, ciascuno sapeva di essere diventato qualcuno.